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E’ un inizio euforico quanto esitante.

L’enorme fondo sabbioso della foce, adiacente allo storico “Trampolino”, è usato nel periodo estivo come spiaggia dai baresi e da qualche turista, mentre le pareti sono rinforzate con imponenti muri di sostegno, costruiti a protezione dell’abitato.
Ad Aprile, però, pochi giovani audaci e un piccolo bar di legno sono le uniche figure nel giallo sabbia del paesaggio. Incontriamo i proprietari, marito e moglie, lei gentile e disponibile, lui autoritario e accigliato, il boss della spiaggia.

Ci incamminiamo lungo il canalone, ognuno con i propri strumenti sulle spalle, verso un mondo simile al conosciuto. Oltre i margini del profondo solco, case, aziende, industrie, auto, vediamo tutto ciò che ci è familiare, la nostra città. Ma sotto i nostri piedi compare una natura svigorita, che preannuncia delle novità visive. Sulle nostre teste campeggiano i ponti cittadini. Saliamo in Via Van Westerhout e in Via Napoli, strade percorse in auto miriadi di volte senza mai chiedersi cosa ci fosse al di sotto. C’è verde, tanto, tanto verde, a perdita d’occhio, è una vera e propria foresta mediterranea decidua.

Un nuovo paesaggio, dentro la città, enorme, vivace eppure nascosto.

Notiamo di essere accompagnati ad intervalli regolari da costruzioni a cupola inserite nella roccia e a volte sovrastate dall’elemento naturale, ciò che incuriosisce sono le fessure lunghe e regolari che ne disegnano il perimetro. Sono quelli che i baresi chiamano “bunker”, in realtà “casamatte”.
Se ne sta perdendo la memoria storica, inghiottite dal disinteresse come dalle radici degli arbusti. Furono costruite per un decreto regio del 1941 per dotare le città costiere di un sistema di avvistamento e al contrario dei bunker sono piccole e non hanno funzione di rifugio ma di deposito per artiglieria e possono ospitare un numero ristretto di soldati (forse 4 o 8). Ne vediamo molte lungo il nostro tragitto nel letto della Lama. Ma la macchia mediterranea è divenuta un’imperscrutabile giungla, perciò deviamo all’altezza di Viale Europa.

Il gruppo di partenza si ricompone e il cammino si ripropone ma questa volta sull’asfalto, attraverso gli esercizi e i volti di chi lì lavora, con quella vista, vicino a quella natura. E si ritorna alla foce, al mare.

Dopo i primi 6 km a piedi e una notte trascorsa nella speranza di essere carichi al mattino per affrontare una nuova esplorazione, per proseguire il percorso, ci sono dei “caduti”, ma anche dei nuovi viandanti. Si riparte da una stazione di servizio della Stanic, non si abbandona mai l’idea del viaggio e delle tappe. La sensazione è di essere pronti, ed autonomi; ciascuno ha scelto o si è fatto un’idea del proprio punto di vista, ognuno ha scelto di battere una strada, alcune si incrociano tra loro, altre sono solitarie.
Parte della mattinata è dedicata a questo: perlustrare, scandagliare, osservare soggetti umani durante il loro lavoro, cancelli, insegne, cespugli, viali polverosi, ponti, foglie...
Ci si ritrova tutti, o quasi, poche ore dopo in un luogo isolato e grottesco, che sembra essere stato immaginato da Jonathan Demme.
Dopo acciaierie, falegnamerie, capannoni, auto, smog e cemento, all'improvviso ci si ritrova tutti su un cumulo di corpicini di plastica, bambole i cui occhi pietrificati e pietrificanti ci fissano. E poi ancora un viale colmo di scarpe, scarpe di ogni modello, di ogni colore, molte hanno perso la loro compagna: metafora perfetta dello stato di abbandono di quel posto. Un luogo vissuto fino a poco prima, lo dimostrano i cuscini, le pentole, i materassi. Proseguiamo, anche noi ci lasciamo le “macerie” alle spalle.

Entriamo dubbiosi in una coltre di verde intervallato da venature grigiastre, lembi di pietra sui quali avremmo dovuto farci strada, come equilibristi, alcuni li attraversano con l’abilità di un funambolo, altri atterriti dal terrore e dalla vertigine. Alla fine tutti ci ritroviamo, sollevati, e fieri sulla terra rossa, tra le piante e i rovi... i rovi che ci intralceranno per il resto della traversata.
Ci fermiamo su un ponticello i cui muretti sono l’unica fonte d’ombra nel raggio di chilometri, posiamo tutti i pesi che abbiamo sulle spalle, confrontiamo i segni che il viaggio sta lasciando sui nostri corpi, tra solchi degli zaini, scottature, taglietti, ci bagniamo la testa e parliamo.
Qualcuno con un atteggiamento marziale continua a montare e smontare. É ora di mangiare, si torna alla civiltà, al cemento, alle auto che ci sfrecciano accanto, alle persone; troviamo un piccolo bar, ciò che ci attira maggiormente è un pergolato e l’ombra! Una gentile signora mette a nostra disposizione ciò che può, siamo tanti e molto ingombranti.

Rifocillati, raggiungiamo una palazzina con degli orti intorno. Un temibile contadino, con volto minaccioso decide di accoglierci. Alcuni di noi si arrampicano con l’aiuto del proprietario su di un terrazzo, per una veduta rialzata, e si riprende il cammino.
L’obiettivo è un bunker, il cui ingresso pare essere nascosto, e forse inaccessibile, ma la curiosità ormai in noi ha superato l’attitudine a ciò che è possibile. Ci inoltriamo fiduciosi e sudati nell’erba alta e verdissima, calpestiamo sentieri battuti e poi pietra e vegetazione, non sappiamo ciò che realmente è sotto i nostri piedi, la natura copre la pavimentazione. Andiamo a tentoni: arranchiamo, rovistiamo, scivoliamo e ci rialziamo, guardiamo i nostri piedi e l’orizzonte... Lunghe attese sotto il sole, mentre la nostra guida studia il territorio e poi la triste notizia: il bunker è inaccessibile.
Si torna indietro, il percorso questa volta è sotto la strada, sotto i ponti che percorriamo in auto, sotto le aziende, sotto le abitazioni, o meglio ai piedi di queste: tra i rovi. Alcune porzioni di cammino vanno lisce, scherziamo tra di noi e ci raccontiamo aneddoti, raccogliamo detriti come fossero indizi importanti per un’investigazione. Poi arrivano cespugli di rovi che ci intralciano, ci pungono, ci fanno lo sgambetto, ne usciamo con spine nei vestiti, nelle calze, finanche nei capelli. Ma ne usciamo! Torniamo alle nostre auto, contando ancora una volta le ferite, siamo ormai i militi della Stanic; il quartiere di Bari adiacente al Villaggio dei lavoratori.
A domani.

 

Dopo 18 km macinati a piedi ci sentiamo dei veterani. Ci incontriamo per il terzo mattino assolato ed isolato, siamo esploratori dell’inusuale, è sempre la nostra città, è sempre il colosso del nostro Stadio San Nicola, ma le prospettive ed i punti di vista sono diversi.
Le nostre guide oggi sono due, la scoperta è moltiplicata.
Si parte dall’ “Astronave” dall’ex quartiere Santa Rita, sotto di noi ancora il letto della Lama. Scopriamo il perché delle stratificazioni delle rocce, il perché di quei bianchi diversi, scivoliamo lungo le pareti laterali del vecchio fiume.
Passeggiamo serafici osservando fossili di piante e animali, radici di alberi, alzando la testa guardiamo i trait d'union, i sostegni, i supporti, le connessioni, i punti di giunzione tra i quartieri della città. Risaliamo su uno dei ponti: il percorso ha subito una deviazione, la natura ci ha vinti ancora. Cominciamo a capire che siamo piccoli e deboli rispetto a lei, che le colate di cemento e gli scarponi non la fermano, che dobbiamo arrenderci a volte e cambiare strada. Ma camminare sull’asfalto è decisamente più faticoso, nulla ci fa ombra, il sole colpisce forte e deciso le nostre teste, ci sono i primi cedimenti, i primi malori e i primi soccorsi che arrivano dai più pronti di noi.

 

Arriviamo a Lama Picone e scopriamo un nuovo mondo, ancora più misterioso, ancora più sotterraneo. Sono abitazioni, luoghi di culto, chiese e cunicoli scavati dall’uomo generalmente in epoca medievale: gli ipogei.
Sul fianco destro della Lama c’è un piccolo cancello verde, entriamo in un luogo pieno di polvere e cenere. E’ la Chiesa di Santa Candida, è fresca e buia e odora di calce. E’ una delle chiese rupestri più belle di Puglia, vicina alle nostre abitazioni e nessuno di noi sapeva nulla della sua esistenza. La chiesa è del X secolo, ha una strana planimetria a forma di mano o a “ventaglio” e anche se aniconica presenta delle nicchie con dei nomi in latino, cerchiamo di decifrarli. Facciamo supposizioni sull’utilizzo di ogni anfratto, colonna e pietra.
Ritroviamo tra la polvere una pagina della Divina Commedia, ci sentiamo anche noi in una discesa esplorativa, anche le nostre sapienti guide sono due... è per noi subito lampante similitudine.
All’uscita ci aspetta un piccolo ometto, un Mowgli moderno, con uno sguardo adulto. Si dirige verso il sentiero e poi verso uno sconfinato campo con tende, roulotte e vita, lì in una zona abbandonata, c’è vita, una società intera.

Saliamo su una collina con vista su Poggiofranco sulla quale si nota subito un altro scuro ingresso: è la chiesetta di Santa Lucia, è adiacente ad una serie di altri ipogei che sono andati distrutti durante la costruzione del ponte di Via Giulio Petroni. Anche l’affresco è stato parzialmente asportato, non c’è ossigeno entriamo in piccoli gruppi ed usciamo velocemente.
Ci sediamo sulla collina e ci godiamo il fresco dell’erba, il primo arancio del tramonto e i palazzi ancora lontani. Continuiamo la marcia ancora tra i valichi con le travi dei ponti sulle teste e le gambe tra i fusti secchi, ci addentriamo nei cunicoli bui del Quadrivio, un ipogeo enorme, con grandi stanze ognuna con una precisa funzione, è freddo e umido, qualcuno forse ci si è accampato per un po’, troviamo un materasso ed una tazza.
Vorremmo esplorare tutto ma ci sono tante zone di difficile accesso, ci facciamo strada con le torce degli smartphone, siamo tanti e tutti increduli.
Ci tocca uscire, risalire la ripida discesa, scavalcare i massi... c’è di nuovo luce, gli occhi hanno avuto il loro riposo.
Ci siamo ritrovati vicini al punto di partenza, davanti a due alberi di ulivo c’è un grosso muro, è ciò che resta del campo di internamento e di transito di epoca fascista, il campo di Torre Tresca è ormai inaccessibile, tutto ciò che ne resta è una piccola chiesetta.
C’è un’altra chiesetta in lontananza che attira i nostri sguardi, un edificio diroccato che si staglia solo in una distesa di arbusti. Dietro l’insegna dell’ex fabbrica storica della Peroni - saranno i colori del tramonto, l’emozione delle scoperte, la stanchezza che ci ha usurati - restiamo tutti immobili ed incantati.
Dopo 30 km si torna a casa, nei nostri sicuri palazzi.

 

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